Le parole sono come lucciole dalle grandi lanterne
Nikolàj Zabolckij
L’esordio di Nikolàj Aleksèevic Zabolckij (1903/’58) avviene nel 1929 col volume Stolbcy in cui tratteggia con malizia le usanze triviali dei borghesi sullo sfondo di una Leningrado fantastica, scenario sguaiato di bettole , birrerie, mercati e lerci tuguri. Affrontò più tardi anche il tema della trasformazione dei campi e del collettivismo rurale. Dopo un lungo periodo di silenzio negli anni del conflitto mondiale, l’autore si ripresentò nel ’48 e nel ’57 con due raccolte che gli portarono grande successo. Il mutamento era avvenuto: da adesso i temi saranno riservati alla natura, che per lui si immedesima con la poesia, fondamento e sostanza della creazione. Tutto è allora motivo di esultanza ed ebrezza, in un metafisico elogio dell’universo. La sua penna, nel dopoguerra, sembra urlare: siamo vivi!
FRA NATURA E POESIA
Le lucciole
Le parole sono come lucciole dalle grandi lanterne.
Finché sei distratto e non t’affissi nelle tenebre,
è futile e fosca la loro fiamma virginea
e impercettibile la loro polvere ispirata.
Ma tu guardale a primavera nel meridione, a Soči,
dove gli oleandri dormono in un festoso rigoglio,
dove un mare di lucciole brilla sopra la notte abissale
e le onde si frangono contro la riva a singhiozzi.
Fondendo l’intero universo in un solo respiro,
di sotto ai piedi ti sfugge il globo terrestre,
e ormai non i loro lumini ti parlano della creazione,
ma l’incendio oscillante delle lontane tempeste.
Un alito di fanfare e tamburelli sconosciuti
zufola lentamente e s’aggira nell’alto.
Che sono laggiù le parole meschine? Parvenze di insetti!
E tuttavia queste creature mi obbedivano.
La pioggia
Fra una nebbia di ruderi di nuvole
incontrando la luce del mattino,
era quasi incorporea e non adorna
delle forme abituali della vita.
Embrione allevato da un nembo,
smaniava, si agitava, ribolliva,
e a un tratto, allegra e possente,
toccò le corde ed attaccò a cantare.
Tutto il querceto prese a sfavillare
d’un subitaneo luccichio di lacrime,
ed in ogni giuntura le betulle
cominciarono a muovere le foglie.
Tesa così con mille e mille fili
fra il cielo accigliato e la terra,
irruppe, penzolando a testa in basso,
nella fiumana degli avvenimenti.
Inclinata, cadeva di lontano
fra i grigi assembramenti delle querce,
e la terra tutta, trepidando,
nel suo grembo possente l’assorbiva.
Sopra il mare
Appena l’odore della santoreggia, secco e amarognolo,
soffiò su di me – questa Crimea sonnolenta,
e questo cipresso, e questa casa addossata
alla superficie del monte si fusero con esso per sempre.
Qui il mare dirige, e le lontananze fanno da risonatore,
il concerto delle alte onde è qui perspicuo in anticipo.
Qui il suono, sfiorando la roccia, scivola a piombo,
e l’eco fra le pietre danza e canta.
L’acustica in alto ha disposto una serie di trappole,
ha accostato agli orecchi il lontano rumore delle correnti.
Qui il boato delle tempeste è come il rombo degli obici,
e come fiori si schiudono i baci delle fanciulle.
Un nugolo di cinciallegre fischietta qui all’alba,
l’uva pesante è qui trasparente e scarlatta.
Qui il tempo non ha fretta, qui i bambini colgono
la santoreggia, l’erba delle steppe, sulle rocce inerti.
Fonte:
Nuovi Poeti Sovietici (Einaudi Editore1963)
A cura di Angelo M. Ripellino
Scrivi un commento