Negli occhi larghi e nudi dei caduti s’era gelato per sempre l’inverno
Evgenij Vinokurov
Nato nel 1925, Evgenij Vinokurov esordì nel 1951 con la raccolta Versi sul dovere. La sua poesia è costantemente pervasa d’una dolcezza sommessa, quasi crepuscolare. La guerra, cui partecipò da giovanissimo, ha dominato per anni le sue scritture. Inesorabile falciatura di giovani, mostruosa stagione di sofferenza, per Vinokurov la guerra è l’antitesi della creazione e della bellezza che, negli anni successivi, gli viene allora incontro dalle piccole cose, dalle figure più umili, dalla quotidianità. Le sue liriche hanno il fascino dell’ingenuità che conferisce anche alle cose più comuni un che di insolito e significativo.
3 Poesie sulla guerra
Primavera
La notte urlava, turbinando intorno.
E negli occhi di quelli che cadevano
la vita si imprimeva come un bianco
vento di neve che sferzasse il viso.
Ma al mattino la calma. Si era aperto
il mondo nel suo azzurro primordiale.
Uscendo sull’alzata, mi sorprese
(diciotto volte ormai!) la primavera.
Erano fulve le umide colline,
venti di primavera folleggiavano.
Negli occhi larghi e nudi dei caduti
s’era gelato per sempre l’inverno.
La bellezza
Guardi il cielo: vi sono migliaia
di stelle primaverili! A che serve
ai giovani il brillio del firmamento?
Ma noi più che di cibo sentivamo
frenetico il bisogno di bellezza.
Ci era concessa a sorsi la bellezza…
La sera, nelle soste rumorose,
il sergente Denísov, tormentando
l’armonica, dai tasti ricavava
la bellezza per noi caparbiamente.
Essa era momentanea, e non vistosa:
solo un baleno. All’alba, in lontananza,
su un poggio era betulla di stearina,
di notte luna a briciole in un fiume.
E a volte: autunno, i tank impantanati,
e fumo, e bruciaticcio, – e all’improvviso
dal puro sguardo d’una contadina
di Poznán, maliziosa, lampeggiava.
C’era l’oscuramento alle finestre
C’era l’oscuramento alle finestre.
La città era tuffata nelle tenebre.
Ci voleva non poca abilità,
per raggiungere un altro quartiere.
Ma io vi andavo. Con lei ci incontravamo
su una panchina in fondo a un cortile.
Sopra la nostra testa si incrociavano
le verdi luci dei proiettori.
Cercavano, tastavano, oscillavano,
come pèndoli in mezzo al firmamento
e, quasi disperando di trovare
il bersaglio, impietrivano da un lato.
Un improvviso allarme sulla testa
ci riempiva di orrore e ci turbava,
come se, spaventoso, sopra Mosca
infuriasse un allegro carnevale.
Sulla panchina sedevamo accanto,
a fianco a fianco, muti sino all’alba,
e, levando la testa, guardavamo
le luci minacciose dei proiettori.
Seguivamo la loro lieve danza…
E molte volte invano nella notte
un sorvegliante con la fascia al braccio
cercava tetro di cacciarci a casa.
Che importa se si udivano gli schianti
e gli spari impuntivano le tenebre?
Forse avevamo colpa se a quel modo
cominciava la nostra giovinezza?
Fonte:
Nuovi Poeti Sovietici (Einaudi Editore1963)
A cura di Angelo M. Ripellino
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